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dallurologo-italiano-in-missione-in-eritrea/
“Asmara è una città costruita da donne che desideravano la pace e l’armonia” racconta lo scrittore eritreo Issayas Tesfamariam. Eppure, al giorno d’oggi la condizione femminile nel Paese africano ancora non è delle migliori, come testimonia Arturo Carluccini, medico volontario della Onlus As.Me.V. Calabria, di ritorno dalla sua terza missione parte del Progetto Eritrea. Questo, sostenuto dalla Fondazione Consulcesi, è volto a favorire lo sviluppo sanitario nel Paese attraverso non solo visite specialistiche e interventi chirurgici ma
anche attraverso la formazione di medici e operatori locali, come raccontato più approfonditamente da Carluccini prima della missione di maggio.
È proprio nel corso dell’ultimo viaggio in Eritrea che l’urologo romano si è trovato alle prese con un episodio spiacevole, finito però bene grazie alla grande opera di mediazione interculturale, costantemente necessaria in ambito sanitario e soprattutto nelle missioni all’estero per poter assistere al meglio tutti i
pazienti.
“C’era una ragazza di quindici anni affetta da coliche renali destre recidivanti. Dopo averla visitata, mi sono accorto che era un monorene congenito e questo monorene era affetto da una sindrome del giunto. Il giunto pielo-ureterale è una situazione in cui la pelvi renale quando si attacca l’uretere vi viene stretta o da
fattori esterni o da malattia tipica interna – ricorda Carluccini – Una situazione seria, che necessitava di un’operazione per permettere al rene di scaricare e quindi far passare la colica. Le ho così proposto l’intervento ma si è intromesso il padre che ha detto di no, portandola via con fare anche un po’ violento”.
“Dopo due giorni, me la sono trovata in sala operatoria quella ragazza. Joseph, il primario di chirurgia dell’Ospedale di Asmara, aveva capito la gravità della situazione e sapeva che andando avanti, nel giro di qualche anno sarebbe andata in dialisi e avrebbe perso il rene, ovviamente. Il primario è riuscito a
convincere il padre e quindi l’abbiamo operata”, conclude allora Carluccini con un sorriso di sollievo. “A fine intervento, c’era il padre fuori dalla sala che mi ha visto, si avvicinato e mi ha ringraziato con un sorriso – aggiunge l’urologo alla sua terza missione in Eritrea – possiamo avere culture differenti certo, ma sono
fiducioso che alla fine gli uomini grazie alla loro intelligenza riescono a trovare un punto d’incontro su ciò che davvero conta”.
Come ha iniziato a partecipare alle missioni in Eritrea sostenute da Fondazione Consulcesi e come è avvenuto l’incontro con gli altri suoi compagni di viaggio?
Sono stato contattato dal Presidente As.Me.V. Roberto Pititto, il nefrologo che ha istituito la dialisi in Eritrea tanti anni fa. La storia la conosco poco perché sono volontario da tre anni quando il mio predecessore Salvatore Galanti, grandissimo urologo, purtroppo è venuto a mancare e allora, attraverso amici, sono stato contatto. Ho accettato subito, ben volentieri, perché è una cosa che mi ha entusiasmato fin dall’inizio.
Che cosa la spinge a fare questo tipo di missioni?
C’è una soddisfazione professionale e c’è una “soddisfazione umana”. Perché si dà una mano a queste persone che non hanno la specialistica lì. I chirurghi locali sono bravi, ci tengo a dirlo. C’è Josef che è bravissimo, ma è un chirurgo generale, quindi gli manca la specialistica. Il chirurgo generale che lavora in Eritrea vede delle patologie che forse qui in Italia non si vedono più e ha da fare degli interventi importanti, ma sempre di chirurgia generale. Quando si va sulla specialistica deve arrangiarsi, quindi ha bisogno di qualcuno che lo spalleggi. Io sto lì per questo.
Ci racconta la sua permanenza tipo? Lei va due volte l’anno, giusto? Si, vado insieme a Francesco Zappone, tecnico volontario anche lui dell’ AsMev Onlus, e ci organizziamo in questo modo: arriviamo il venerdì in mattinata, in modo tale che ci sistemiamo ad Asmara e ci organizziamo così che il sabato mattina faccio tutte le visite ai pazienti che sono lì ad aspettare purtroppo. Nell’ultima
missione sono state una cinquantina di visite. Poi programmo tutti gli interventi della settimana ed eventualmente qualche ulteriore piccola analisi perché di solito il 90% viene con delle antiche radiografie – noi ce la caviamo con un ecografo, cerco di lavorare sulle diagnosi, in modo tale da poter programmare poi gli interventi. La domenica l’ospedale è semi chiuso e si ricomincia lunedì verso le nove del mattino e quando si finisce si finisce, anche perché spesso quando si finisce in sala ci sono altre visite da fare, in quanto viene gente dai villaggi. Come mi dice Naib, che sarebbe il mio traduttore perché conosce tigrino,
inglese e italiano, c’è gente che viene da lontano e molte volte ha l’autobus una volta a settimana. Non posso non visitarli.
Lei ci ha detto che cosa dà, ma che cosa prende ogni volta che va in missione.
I ringraziamenti, gente che mi saluta volentieri, che mi ringrazia. È una cosa semplice, è questo il volontariato. Quindi se uno vuole fare questo lavoro deve avere la volontà, lo dice la parola stessa. Non è niente di speciale, uno si deve sentire bene a fare una cosa del genere e non dovrebbe mai sentirlo come
un peso – anche se in effetti la famiglia può diventare un pochettino un deterrente; ma alla fine parliamo di due, tre missioni all’anno, per una quindicina di giorni, quindi penso sia un sacrificio più che fattibile.
Dott. Carluccini, come supera il gap culturale e linguistico che trova in Eritrea? Quindi come fa a relazionarsi ai medici locali?
I medici locali parlano inglese, io no ma ho Naib, questo ragazzo che ci aiuta e che conosce tre lingue, quindi ci traduciamo in continuo. Poi ogni tanto qualcuno accenna anche qualche parola in italiano – perché qualcuno lo parla, anche tra i pazienti. C’è stata per esempio una signora che aveva accompagnato
sua figlia e mi spiegava tutto, quello che era successo, tutte le sue esperienze italiane…Quindi era stato facile comunicare. Poi quando arrivano pazienti che parlano soltanto tigrino c’è Naib che mi traduce tutto, tant’è che per strada, quando lo incontrano, alla fine lo chiamano dottore.
Ha qualche altra storia che le è rimasta dentro? Che l’ha colpita particolarmente qualche persona che ha incontrato lì in Eritrea durante una delle missioni in questi tre anni?
Tutti i pazienti hanno una storia dietro. Purtroppo, quando ne devo visitare cinquanta mi concentro sull’aspetto medico, ma dopo eventualmente, quando li rivedo post operazione, mi raccontano le loro storie e conosci realtà completamente differenti da quelle che viviamo noi. Una cosa che ti colpisce è la
serenità di queste persone nella sofferenza e nella difficoltà, ti arricchisce. Alla fine, torni qui e vedi quanta importanza si dà a cose stupide, alle macchine grandi, ai selfie, all’apparenza…
Poi la sera, con Francesco il tecnico di dialisi con cui viaggiamo sempre, andiamo nei locali dove cantano, ballano, ridono, scherzano e vedi parecchie culture: dalla ragazza in short a quella con il burqa. Insomma, c’è di tutto, è molto bello. Io non li ho mai visti litigare, quindi non ho mai visto uno che alzasse la voce. Non
lo so, può darsi che sia stato fortunato, però mi sembra gente serena, nonostante tutto.
Che tipo di sviluppi potrebbe il progetto sostenuto da Fondazione Consulcesi? Per migliorare il futuro, vista anche l’età che ho, c’è bisogno che qualcuno venga ad affiancarmi durante le missioni. L’invito è per chiunque abbia buona volontà: se ci sono colleghi che sentono questa spinta di poter dare una mano giù ad Asmara, che ben vengano!